Scritti di Livio Maitan · Storia

Le ripercussioni in Italia della tragedia cilena

Dall’autobiografia di Livio Maitan, La strada percorsa, ErreEmme, Bolsena, 2002, uno stralcio dal capitolo VII

[…] Gli ultimi mesi del 1973 erano segnati dalla tragedia cilena. La reazione del Partito comunista, su iniziativa di Enrico Berlinguer, era una messa a punto strategica, con la prospettiva del compromesso storico. La nostra critica non poteva che essere radicale. L’ipotesi berlingueriana di “una collaborazione e intesa di forze popolari a ispirazione comunista e socialista con le forze popolari di ispirazione cattolica, oltre che con formazioni di altro orientamento democratico”, basata su una interpretazione mistificatoria della natura della DC, era un disegno destinato a restare sulla carta o, nella misura in cui cominciasse a tradursi in pratica, a “infrangersi rapidamente sotto l’urto della dinamica delle forze sociali, che si muovono secondo una logica incoercibilmente antagonistica”. [1]

Ma il golpe di Pinochet provocava reazioni sorprendenti nell’area stessa di critici di sinistra, o ritenuti tali sino a quel momento. Lucio Colletti cominciava proprio in quella occasione, con un articolo su l’Espresso, una peregrinazione che, attraverso successivi ripensamenti anche filosofici, lo avrebbe portato alla corte di Silvio Berlusconi. Beninteso, in quel momento Berlusconi non esisteva ancora e Colletti era appena reduce da battaglie politico-ideologiche in difesa del marxismo, del leninismo e, come direttore de La Sinistra, anche del castrismo. Tuttavia, operava una svolta netta verso posizioni che potevano essere definite “kautskiane” senza eccessive forzature. [2]

Nell’estrema sinistra, non solo in Italia, il primo riflesso era un forte impegno di solidarietà. Le mobilitazioni si moltiplicavano rapidamente in tutta una serie di città e una sottoscrizione che era stata lanciata superava in poche settimane i 20 milioni. Una manifestazione di carattere internazionale era fissata in un primo tempo per il 16 dicembre a Milano. Ma questa decisione subiva una correzione, perché una manifestazione internazionale era organizzata per il 9 dello stesso mese a Parigi, in coincidenza con una riunione dei ministri economici di paesi creditori del Cile. In Italia, una manifestazione nazionale si sarebbe svolta a Torino il 18 novembre. Anche questa manifestazione rappresentava un grande successo per l’estrema sinistra: molte decine di migliaia di persone percorrevano durante molte ore le strade della capitale piemontese. Lotta continua costituiva il contingente di gran lunga più massiccio, forse il punto più alto raggiunto da questa organizzazione; ma impressionante era la gamma delle organizzazioni, dei movimenti, dei comitati che erano presenti. Anche il nostro spezzone di corteo era abbastanza consistente – oltre un migliaio di persone – al punto che dopo lo scioglimento decidevamo di continuare a percorrere per circa un’ora alcune vie del centro (questa di cortei conclusivi “separati”, per “cementare” meglio le rispettive organizzazioni, era una pratica corrente, che avevamo adottato a nostra volta).

Una terza ondata di mobilitazioni internazionaliste era provocata dalla rivoluzione in Portogallo e si sarebbe protratta, con alterne vicende e diversa intensità, per almeno un anno e mezzo. L’interesse e, nella fase più acuta della crisi e della radicalizzazione, l’entusiasmo per quello che stava accadendo stimolavano, tra l’altro, un turismo politico senza precedenti: esodi dai paesi dell’Europa occidentale verso il Portogallo e, in misura ovviamente assai minore, spostamenti in senso inverso di studenti, operai e soldati portoghesi, rappresentativi o meno, che diventavano protagonisti di assemblee, convegni e seminari, illustrando la situazione del loro paese, spesso ispirati più dal wishful thinking che da scrupoli analitici. Va da sé che gli ascoltatori accoglievano con entusiasmo la buona novella: anche prima di ricevere i messaggeri, avevano pensato o sperato che le cose andassero così e che la rivoluzione conoscesse un’ascesa irresistibile. Con minor calore era accolto chi si sforzava di tracciare un quadro più realistico, osando magari ridimensionare certi miti. [3]

Il punto più alto della solidarietà con la rivoluzione portoghese era raggiunto con una manifestazione nazionale di fine settembre 1975 a Roma, paragonabile per l’entusiastico impegno di decine di migliaia di partecipanti a quelle di Milano e Torino, rispettivamente, per il Vietnam e per il Cile. Come dono ospitale Roma offriva una delle sue struggenti giornate autunnali, fornendo uno sfondo esteticamente affascinante all’interminabile corteo. Prevaleva un’atmosfera gioiosa, dopo che si erano rapidamente dissipati i timori di scontri con la polizia o di incidenti artificiosamente provocati. Anche i militanti dei servizi d’ordine inondati di sudore sotto i loro pesanti eskimo, in contrasto stridente con la temperatura ancora estiva, potevano alla fine rilassarsi. [4]

Queste iniziative, che si sarebbero protratte – ripetiamolo – per diversi anni, davano la misura di quanto fossero diffuse sensibilità e aspirazioni internazionaliste, in sintonia con le più valide tradizioni del passato; permettevano di verificare la vasta influenza e il radicamento dell’estrema sinistra nel suo insieme; confermavano che l’estrema sinistra era una delle espressioni più significative e, per certi aspetti almeno, più originali di una crisi di società in cui – per riprendere un’espressione allora ricorrente – aveva agito ed agiva da “detonatore”. Ma ne facevano risaltare, al tempo stesso, limiti intrinseci e contraddizioni.

Innanzitutto, la presa d’atto che la solidarietà internazionalista dovesse comportare convergenze unitarie in uno spirito di fronte unico (usiamo questa espressione per la sua pertinenza, pur sapendo quanto fosse allora aborrita dalla grande maggioranza dell’estrema sinistra) non era sufficiente a superare atteggiamenti settari per cui, per esempio, si cercava di imporsi con tutti i mezzi all’interno dei comitati, se non addirittura di tracciare arbitrarie linee divisorie in funzione dell’interesse di questa o quella organizzazione. Per esempio, la manifestazione per il Cile a Torino era stata preceduta da ogni sorta di contrasti, solo in parte comprensibili, sulla scelta della data e della città, con il rischio (poi fortunatamente evitato) di ridurre l’ampiezza della iniziativa. [5]

Ma soprattutto discutibile era la scelta di definire l’organismo unitario di solidarietà “Comitato nazionale di sostegno alla lotta armata del popolo cileno” (promosso all’inizio dalle tre principali formazioni di estrema sinistra, oltre che dalla nostra organizzazione), per non parlare della parola d’ordine “armi al MIR”, lanciata soprattutto da Lotta continua. Qui due impostazioni errate si combinavano. La prima consisteva nell’imporre a comitati, miranti a mobilitare le forze più ampie per una solidarietà con il popolo cileno, una denominazione che privilegiava a priori un particolare settore politico. La seconda era di carattere analitico: si sottovalutava la portata devastante della sconfitta e si giudicava possibile, a scadenza immediata o molto breve, una risposta sul terreno della lotta armata. Bastavano pochi mesi per dimostrare quanto poco realistica fosse questa ipotesi e quanto assurda fosse l’interpretazione, avanzata anche su il manifesto, secondo cui il golpe aveva avuto l’effetto di fare apparire meglio a livello di massa la vera posta in giuoco, creando perciò stesso condizioni più favorevoli a una lotta che sarebbe continuata. Personalmente, eravamo più di altri in grado di avvertire come certe analisi corrispondessero ben poco alla realtà o a effettive potenzialità, avendo seguito da vicino tutto il processo cileno dal 1962 in poi, grazie a ripetute visite, l’ultima delle quali nel luglio 1973, quando ormai il golpe era esplicitamente preannunciato sui quotidiani di destra. [6]

Considerazioni analoghe, al di là delle ovvie diversità sul merito dei problemi, valgono per le campagne di solidarietà con il Portogallo. Qui il settarismo si manifestava, soprattutto, con i tentativi di far prevalere rapporti privilegiati, spesso in larga misura immaginari, con questa o quella organizzazione, con questo o quel movimento portoghese, e di mettere in piedi iniziative su questa base, da cui altri erano esclusi. A volte si intrecciavano settarismi di organizzazioni italiane e settarismi di organizzazioni portoghesi, con effetti moltiplicatori facilmente immaginabili. Sul piano delle analisi e delle prospettive che ne derivavano, ci siamo trovati a polemizzare soprattutto sulla natura del MFA (Movimento delle Forze armate), che aveva assunto un ruolo di primo piano nel processo apertosi il 25 aprile del 1974. Verso il MFA le tre principali organizzazioni di estrema sinistra assumevano un atteggiamento di appoggio largamente acritico (Avanguardia operaia non esitava neppure a condividerne l’invito alla astensione alle elezioni dell’aprile 1975, le prime dopo il rovesciamento della dittatura), riconoscendo l’egemonia del MFA non solo come garanzia contro ritorni di fiamma reazionari, ma anche per l’ulteriore dispiegarsi di una dinamica rivoluzionaria. Ben diversa era la nostra interpretazione:

In una situazione in cui la borghesia si trova nell’impossibilità di esercitare la propria egemonia politica per vie normali […] in periodi di crisi politica profonda, l’apparato militare può apparire come l’unico in grado di assicurare la gestione dello Stato. Precisamente l’esercito può assolvere la funzione di partito egemone, in grado di assicurare il funzionamento dei meccanismi essenziali del sistema. Questo non deve necessariamente avvenire sotto forma di una dittatura militare reazionaria, ma può avvenire sotto la direzione di tendenze militari riformiste o populiste […]. Nella terminologia marxista l’esercizio dell’egemonia politica in questa forma è definita bonapartista. Tale caratterizzazione […] è perfettamente legittima nel nostro caso, nella misura in cui in Portogallo oggi non si può dire che la borghesia eserciti direttamente l’egemonia politica, ma è costretta a ricorrere ad una mediazione. Il MFA realizza questa mediazione, cercando l’indispensabile appoggio di massa [7]).

Questa interpretazione, del tutto analoga a quella dei trotskisti portoghesi, sollevava sulle prime qualche dissenso nella stessa IV Internazionale, mentre appariva troppo ortodossa nell’estrema sinistra italiana (tra gli altri, a Rossana Rossanda, la quale se la cavava con la banale e non pertinente osservazione che “non bastava essere in divisa per essere bonapartisti”). L’esperienza non tardava a dimostrare che definiva semplicemente lo stato reale delle cose.

Note

[1] Cfr. un nostro articolo su Bandiera Rossa, n. 14, 1973. Più in generale sul compromesso storico, che nella formulazione berlingueriana del 1973 non avrebbe mai trovato – pour cause! – applicazione pratica, si veda L. Maitan, Al termine d’una lunga marcia, dal PCI al PDS, cit.

[2] Una nostra replica a Colletti era pubblicata con il titolo “La lezione del Cile e la pedanteria kautskiana” (Bandiera Rossa, n. 14, 1973). Colletti avrebbe poi auspicato un ritorno a Kant in una lunga intervista comparsa sulla New Left Review (n. 86, 1974). A nostro giudizio, basato su rapporti in quell’epoca piuttosto frequenti, aveva cominciato a influire in senso negativo su Colletti l’esplodere del movimento studentesco, verso il quale aveva, magari inconsciamente, riflessi da “barone” universitario, con una sottolineatura costante e unilaterale degli aspetti più discutibili.

[3] Nell’estate del 1975, particolarmente apprezzati erano militari del SUV che riferivano sulla situazione in certe caserme di Lisbona. Il più delle volte i soldati annunciati erano puramente immaginari, ma c’era sempre la scusa “rivoluzionaria” pronta per giustificare il mancato arrivo. Quanto alla freddezza con cui venivano accolte informazioni più realistiche, l’abbiamo personalmente sperimentata in occasione di una serie di riunioni pubbliche del maggio 1975, in cui era relatore Joao Cabral, uno dei dirigenti della sezione portoghese della IV Internazionale.

[4] Non era un segreto per nessuno che gli eskimo servivano a nascondere strumenti di autodifesa, il ricorso ai quali era suggerito dall’esperienza, cioè dagli attacchi ricorrenti subiti da parte di bande di estrema destra e dalla violenza di interventi polizieschi.

[5] Per maggiori informazioni in merito rimandiamo a Bandiera Rossa, nn. 14, 15 e 16, 1973.

[6] Questi viaggi in Cile, oltre che in altri paesi dell’America Latina, li facevo per le responsabilità assunte allora nella IV Internazionale (in particolare tra il 1967 e il 1974), come responsabile dei rapporti con le organizzazioni latinoamericane. Sulle questioni cilene si veda una risoluzione della IV Internazionale (Quarta Internazionale, n. 4, 1973) e un articolo di chi scrive (Bandiera Rossa, nn. 16-17).

[7] Sul tema MFA e Portogallo più in generale le nostre pubblicazioni ritornavano costantemente nel corso del 1975.