In guerra per il tempo

Le classi dominanti ci vogliono abituare a considerare come normale il paradosso più grande della nostra epoca e cioè la contraddizione crescente tra lo sviluppo della conoscenza umana e il processo di distruzione che esso induce, non solo in termini di guerre, catastrofi naturali ma anche di danni sociali, fame, miseria e disoccupazione.

Gli intellettuali a servizio del potere possono scomodare tutto ciò che credono, la morale, la religione, l’economia ecc., ma non riusciranno mai a giustificare come una crescita delle capacità umane possa determinare nuove infelicità e sofferenze.

Una contraddizione, questa, che la specie umana porta con sé come una sorta di maledizione: un’incapacità a dominare pienamente, in modo consapevole e solidale, la forza rivoluzionaria della propria conoscenza. Quando l’accumularsi dei saperi e delle tecniche permette agli uomini e alle donne di non destinare la totalità della propria esistenza alla ricerca e alla produzione di cibo, il tempo, liberato dalla mera sopravvivenza, diventa oggetto di una lotta accanita tra gli individui, trasformandosi per alcuni in strumento di potere e per altri in una nuova condizione di oppressione e sofferenza.

Tempo di lavoro liberato e crisi capitalistica

Questo processo non avviene per pacifica evoluzione, al contrario è necessaria «(…) una rivoluzione sociale per disgregare la società primitiva egualitaria», ma tale rivoluzione diventa «(…) possibile solo se è stato raggiunto un livello di produttività che permetta ad una parte della società di liberarsi del lavoro materiale» (1).

Dal Neolitico ad oggi non abbiamo fatto molti passi in avanti nel governo collettivo del tempo conquistato alla natura, anzi, su questo terreno il grado di civiltà della moderna società capitalistica è decisamente inferiore a quello delle società tribali. Il nostro tempo è un tempo che non ci appartiene, è il tempo delle macchine assurte a sistema nel processo di valorizzazione del capitale. L’elettronica e l’informatica stanno portando questa contraddizione all’estremo: «L’orologio misura il tempo in relazione alla percezione umana. È possibile esperire un’ora, un minuto, un secondo, anche un decimo di secondo. Il computer invece lavora in un contesto temporale in cui la misura temporale è il nanosecondo. E per quanto si possa concepire teoricamente un nanosecondo, non è possibile esprimerlo. Questo segna un radicale punto di svolta nel modo in cui gli esseri umani si rapportano al tempo. Mai prima il tempo è stato organizzato da una velocità che va oltre il regno della coscienza» (2).

La follia del lavoro

Più di cento anni fa un grande dirigente socialista, Paul Lafargue, riprendendo concetti elaborati da suo suocero Karl Marx, e in polemica con le posizioni già allora dominanti nel movimento operaio, scriveva: «(…) Una strana follia possiede le classi operaie delle nazioni in cui domina la civiltà capitalistica. È una follia che porta con sé miserie individuali e sociali che da due secoli stanno torturando la triste umanità. Questa follia è l’amore del lavoro, la passione esiziale del lavoro, spinta fino all’esaurimento delle forze vitali dell’individuo e della sua progenie» (3).

Oggi sarebbe forse esagerato parlare di un diffuso amore per il lavoro, anche per il fatto che i vecchi mestieri sono in gran parte scomparsi e la maggioranza dei lavori sono ripetitivi e noiosi, ma l’etica del lavoro rimane una delle debolezze centrali nella coscienza dei lavoratori.

Nella cultura dominante il lavoro rimane il centro dell’esperienza umana e il primo dovere civile di ogni individuo.

Nella nostra società l’unica possibilità che viene concessa alla maggioranza delle persone per accedere ad un certo livello di consumo e per esercitare alcuni diritti, è quella di sottomettersi alla disciplina del lavoro salariato. Il lavoro mantiene il suo valore ideologico fondamentale come «centro del valore e dell’identità sociale degli individui» (4). Non a caso in questo sistema la figura sociale dominante è stata – e largamente ancora rimane – il maschio adulto lavoratore, mentre tutte le altre figure che sono escluse dal mondo del lavoro, o hanno con esso un rapporto più problematico, occupano una posizione subalterna. Nella società industriale, ad esempio, la condizione degli anziani è caratterizzata da una progressiva emarginazione.

L’elevato tasso di disoccupazione che da alcuni decenni stabilmente caratterizza l’occidente capitalistico, potrebbe far pensare ad un venir meno del ruolo dominante dell’etica del lavoro. Che senso ha infatti l’esaltazione del lavoro come strumento di redenzione, se di lavoro ce n’è sempre di meno?

Eppure la mancanza di lavoro, anche quando non comporta una totale privazione del reddito, come nel caso della cassa integrazione, determina una sofferenza psicologica che spesso spinge le persone a togliersi la vita. Ad accentuare questo dramma c’è il fatto che, nella quasi totalità dei casi, il lavoro tanto agognato è abbrutente, disumano.

Non c’è dubbio che vi sia una tendenza generale alla diminuzione della quantità globale di lavoro socialmente necessario, nonostante la crescita dei consumi sociali. Come afferma Marx, il capitale nella sua costante trasformazione tende ad incorporare nelle macchine quote crescenti di lavoro vivo, umano. Intorno alla metà del secolo scorso in Europa si lavoravano mediamente 3.600 ore l’anno, dalle 14 alle 16 ore giornaliere per una media settimanale di 90/100 ore e non esistevano né domeniche, né giorni festivi. Oggi l’orario annuale è all’incirca di 1.750 ore, vale adire che in 150 anni si è più che dimezzato. Premesso che la progressiva diminuzione del tempo di lavoro non è stata conseguenza automatica del progresso tecnologico, ma il frutto di lotte sanguinose condotte dai lavoratori contro il capitale, sembra confermato un calo della porzione di lavoro umano nella produzione globale.

La società dei due terzi

Come è possibil allora continuare a pensare il lavoro come il fulcro di tutto l’ordinamento sociale, quando questo occupa uno spazio sempre più limitato? Ci troviamo di fronte ad uno dei fattori di crisi essenziali del modello capitalistico.

Il capitale non risolve questa contraddizione, ma risponde ad essa con la frammentazione dei soggetti ed una nuova stratificazione sociale. È la cosiddetta società dei due terzi: ci sarà una parte della società per la quale il lavoro manterrà la sua funzione materiale ed ideologica di premio e gratificazione ed un’altra parte di società per la quale il rapporto con il lavoro sarà più occasionale e marginale, funzionando sul piano ideologico come aspettativa. Paradossalmente, soltanto una separazione di questo tipo può infondere nuova linfa all’etica del lavoro. Nel modello giapponese, mentre il toyotismo è il tentativo di ricreare in strati di lavoratori fedeli e garantiti l’amore per il lavoro di cui parlava Lafargue – e cioè una dedizione totale al proprio lavoro, cosa impossibile da ottenersi attraverso un modello puramente autoritario -, in una dimensione parallela vive uno strato di lavoratori meno garantiti e con un rapporto con il lavoro fondato sull’incertezza. Ma è proprio attraverso questa separazione delle condizioni che il lavoro non perde il proprio valore e non si svaluta ideologicamente.

Immaginiamo una società dove fosse possibile per tutti lavorare, per la produzione sociale necessaria, due giorni alla settimana o tre mesi nell’arco di un anno. Come potrebbe il lavoro mantenere un peso determinante nella vita delle persone?

Con la crescente centralità dell’impresa capitalistica e la parallela flessibilizzazione della condizione lavorativa, tende invece ad aumentare la dipendenza della vita sociale dal lavoro salariato. Si ha quello che viene chiamato I’ “effetto alone” e cioè l’interferenza del lavoro e dei suoi tempi anche nella sfera temporale non impegnata nel lavoro. In una struttura produttiva dove tutto è flessibile (gli orari, i turni, il rapporto di lavoro, le mansioni, la localizzazione del lavoro, ccc.) l’effetto alone rischia di avvolgere una buona parte del tempo di vita.

Se dovesse, infatti, affermarsi il lavoro in affitto, il massimo prototipo del lavoro flessibile, quanto sarebbe il tempo perso nell’attesa, nel tenersi a disposizione, nei continui spostamenti, nel riprogrammarsi in continuo l’esistenza?

In fondo non è già questa la condizione di milione di disoccupati che vivono in sottoccupazione, precariato, di lavoro a intermittenza? Quanto del loro tempo e delle loro energie fisiche e mentali impiegano, quasi sempre inutilmente, alla ricerca e nell’attesa della minima occasione di impiego?

Proprio mentre il lavoro dovrebbe avere una minore importanza, avviene un processo inverso per cui alcuni sono costretti a lavorare sempre di più, con i tempi di lavoro che invadono prepotentemente tutta la loro sfera privata, mentre altri occupano buona parte del loro tempo nella affannosa, quanto inutile, ricerca di un lavoro. Tutto questo è inequivocabilmente una follia.

Battersi contro l’etica del lavoro e la sua centralità non significa approdare alle teorie sul rifiuto del lavoro, né compiacersi della crescita della disoccupazione. Si tratta di rovesciare la visione di un mondo in cui certi diritti e benefici sono ancora vissuti come una più o meno equa contropartita all’assolvimento del proprio dovere lavorativo.

Dobbiamo comprendere che oltre a non esistere una relazione diretta tra ricchezza che i lavoratori producono e quanto ne ricevono in cambio, è della massima importanza l’affermazione dell’universalità di alcuni diritti sociali, prescindendo totalmente dal rapporto di lavoro. Il diritto ad un reddito minimo, il diritto ad avere una casa, il diritto ad avere più tempo per sé, il diritto alla salute, il diritto ad una vecchiaia dignitosa, il diritto ad un ambiente non inquinato, il diritto allo studio ecc., devono essere rivendicati come tali, e cioè al di fuori di qualsiasi rapporto contrattualistico.

Oggi, viceversa, sulle questioni decisive dello stato sociale emerge una tendenza a ripristinare il lavoro salariato come fonte dei diritti sociali più essenziali.

Dall’utopia alla credenza

Negli ultimi tempi in Italia è tornato di attualità il dibattito sulla riduzione d’orario. Senza svalutare l’importanza del confronto culturale che esso produce, impressiona la sua totale astrattezza e la mancanza di qualsiasi legame con le dinamiche reali.

Ad esempio, nel corso del 1993 si sono lavorate nell’industria mediamente 43 ore settimanali, mentre lo straordinario per addetto è passato dalle 50 ore del 1980 alle 83 del 1991 e questo anche grazie ad una contrattazione sindacale che nei fatti ha favorito l’allungamento dei tempi di lavoro. La costruzione di lotte concrete deve colmare questa sfasatura tra teoria e realtà che rischia nel tempo di trasformare un obiettivo realistico ed attuale come quello della riduzione d’orario in un’ipotesi puramente utopistica.

Anche coloro che, come Aznar, sembrano affidare le sorti della riduzione dei tempi di lavoro al prevalere del buon senso nei governi, favoriscono lo stesso risultato (5).

Le ragioni che impongono una urgente riduzione degli orari di lavoro sono note: nei paesi Ocse ci sono 35 milioni di disoccupati (pari all’8,5% della popolazione attiva) e per riassorbirli sarebbero necessari tassi di crescita del Pil almeno intorno al 5-6%, che nessun osservatore ritiene possibili.

I disoccupati nella Comunità Europea hanno raggiunto i 20 milioni, pari alla popolazione del Belgio, Danimarca ed Irlanda messa insieme. Il libro bianco di Delors propone di creare 15 milioni di nuovi posti di lavoro attraverso tagli allo stato sociale e investimenti in grandi opere infrastrutturali, ma la maggioranza dei commentatori ritiene tale obiettivo non credibile.

Negli ultimi 20 anni in Europa il Pil è raddoppiato, con una crescita dell’occupazione di poco più del 10%. Il coniugarsi di una stagnazione strutturale del mercato mondiale con gli incrementi costanti della produttività, determina la crescita inarrestabile della disoccupazione.

L’introduzione massiccia di nuovi sistemi tecnologici, di innovazioni organizzative e di prodotto, nel comparto manifatturiero come pure in quello dei servizi, sta portando ad un continuo risparmio di lavoro.

Negli stabilimenti Fiat, quindici anni fa occorrevano 170 ore di lavoro per far uscire un’auto, oggi ne sono sufficienti 14. Non tutto questo miracolo è dovuto solo al progresso tecnologico, una parte è il risultato di un aumento dell’intensità del lavoro e dello sfruttamento, ma la sostituzione di lavoro vivo con le macchine resta un fattore chiave.

Ed è così che torniamo alle alternative del Neolitico: o questo tempo risparmiato viene redistribuito equamente a tutta la società, oppure ancora una volta produrrà nuove oppressioni ed ingiustizie sociali.

Perché qualsiasi ipotesi di riduzione d’orario incontra tra i capitalisti tanta resistenza?

Perché le imprese si oppongono anche a forme di riduzione d’orario per le quali ricavano addirittura un profitto, come nel caso dei contratti di solidarietà?

Il tanto sbandierato problema dell’aumento del costo del lavoro in rapporto alla concorrenza internazionale, nel momento in cui l’industria italiana rilancia le sue esportazioni grazie alla semplice svalutazione della lira, dovrebbe essere ridimensionato.

Se accettassimo come decisivo il principio del costo del lavoro, qualcuno dovrebbe spiegare perché l’industria tedesca non sia andata in rovina, dato che a livello europeo ha il più basso utilizzo degli impianti, gli orari medi di lavoro tra i più bassi, ha il costo salariale più alto del mondo (24.87 $ l’ora) (6).

Il fatto è che prima ancora del costo del lavoro sono decisivi la strategia di investimenti, l’innovazione e la qualità dei prodotti. Di per sé quindi, l’introduzione delle 35 ore a parità di salario non manderebbe in rovina nessuna delle economie dei paesi industrializzati.

Sono tanti i motivi che spingono le imprese ad osteggiare con tanta veemenza la riduzione d’orario, ma vi è soprattutto un’opposizione di fondo che, per usare un’espressione di Marx, trasforma ogni lotta per l’abbassamento del tempo di lavoro in una “guerra civile”.

A differenza di altre rivendicazioni dei lavoratori, come aumenti salariali, miglioramenti ambientali ecc., la riduzione d’orario non ha solo un costo per il capitalista, ma intacca anche un principio vitale dell’ordinamento capitalistico: attraverso di essa i lavoratori tentano di sottrarsi alla schiavitù del lavoro salariato.

Anche se le 35 ore non rappresentano una riduzione quantitativa rilevante, segnano un passaggio storico, come sottolinea Oscar Negt: «Quando il movimento operaio rivendicò la giornata lavorativa normale giustificò la richiesta con una suddivisione plausibile del tempo che pareva corrispondere, per così dire, alle esigenze della natura stessa: otto ore di lavoro – otto ore di sonno – otto ore di vita da essere umano.

«Sembrava così un rapporto equilibrato tra tempo espropriato, organizzato da altri, e tempo proprio.

«Supponiamo che nel futuro la giornata sia suddivisa così: sette ore di lavoro – otto ore di sonno – nove ore di vita da essere umano.

«Già in questa semplice comparazione sarebbe facile riconoscere che la parte di tempo da dedicare alla vita da essere umano, in qualunque modo venga concepita e realizzata, ha una certa preponderanza» (7).

Forse la riduzione del tempo di lavoro si sta avvicinando ad una soglia critica sotto la quale il lavoro salariale perderebbe gran parte della sua funzione di ordinatore sociale.

Oltre un certo limite la riduzione non è più solo quantitativa, ma marginalizza il significato del lavoro nella coscienza delle persone, destabilizzando così le stesse relazioni economiche e sociali costruite dal capitale.

Abbiamo davanti a noi un compito rivoluzionario e cioè ingaggiare una guerra civile per il tempo che ci porti a riscoprire, come sottolinea Wolfgang Sachs, tutte quelle attività umane rimaste nell’ombra del lavoro «(…) proprio quelle attività con le quali, per tanto tempo, si è cercato di costruire il benessere e la felicità, vale a dire l’amicizia, la morale, la bellezza» (8).

Durante la Rivoluzione francese, «(…) quando scese la sera del primo giorno di battaglia avvenne che in molti luoghi di Parigi, indipendentemente e nello stesso tempo si sparasse contro gli orologi delle torri» (9). Forse fu un modo per quegli uomini di esprimere il proprio bisogno di tornare padroni del proprio tempo.

Raffaello Renzacci

(in Bandiera Rossa n° 50 – 1995)

1) Ernest Mandel, Trattato marxista di economia, Roma, 1970.

2) Jeremy Rifkkin, Time wars, New York 1989, cit. in Franco Berardi, Lavoro zero, Roma, 1994.

3) Paul Lafargue, Diritto all’ozio, Milano.

4) Franco Berardi, Lavoro zero, Roma, 1994.

5) Guy Aznar, Lavorare meno, lavorare tutti, Torino, 1994.

6) Le Monde, 1 febbraio 1994

7) Oskar Negt, Tempo e lavoro, Roma, 1988.

8) Orario minimo garantito, inserto di Rassegna sindacale, n. 22/23 giugno 1994.

9) Walter Benjamin, Angelus novus, Torino, 1968.